martedì 27 settembre 2011

CONVEGNO MediaMenteDonna



Per riflettere sull'immagine della donna nei media. Tra strumentalizzazione e responsabilità.


Interverranno:

CLELIA PALLOTTA
Docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi – Politecnico Milano – Facoltà Disegno industriale
"Estetica cortigiana e retorica emancipatoria: storicità e fiction nella rappresentazione televisiva dell'universo femminile"

SAVERIA CAPECCHI
Docente di Sociologia della comunicazione e Sociologia della famiglia –Università di Bologna – Facoltà Lettere e filosofia
"Il corpo ''perfetto''. Genere, media e processi identitari: i dibattiti in corso"

FRANCESCO SILIATO
Docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi e di Cultura della comunicazione – Politecnico di Milano – Facoltà del Design
"Cosa guardo in TV? Il meglio e il peggio dei palinsesti televisivi secondo l'ascolto dei pubblici femminili"

LEGGI L'INTERVENTO DI CLELIA
Estetica cortigiana e retorica emancipatoria: storicità e fiction nella rappresentazione televisiva dell’universo femminile.

Intervento di Clelia Pallotta al convegno di Agire Libere
MediaMenteDonna - Ascoli Piceno 30 settembre 2011

Negli ultimi due anni ci sono state numerose proteste e iniziative di donne, ma non solo, che hanno voluto segnalare con allarme il deterioramento e il decadimento nella rappresentazione della figura femminile da parte dei media.
Si è trattato di una vera e propria campagna di sensibilizzazione dell’opinione pubblica che è iniziata nel maggio del 2009 quando Lorella Zanardo, consulente organizzativa aziendale a livello internazionale, ha
messo in rete un documentario, Il corpo delle donne, che documenta con un collage di immagini e con parole molto incisive quanto nel nostro paese le donne siano indegnamente rappresentate dai media. Il documentario, a cui e seguito un libro, è ancora visibile in rete, ha avuto una grande circolazione e uno straordinario successo, con dibattiti e discussioni sul web e fuori, nel mondo, soprattutto nelle scuole.
Nel novembre del 2009, anche per gli stimoli lanciati dal Corpo delle donne, per iniziativa di un’altra donna, Gabriella Cims (coordinatrice dell’Osservatorio sulla Direttiva dell’Unione Europea “Servizi dei media audiovisivi” istituito presso il Ministero dello sviluppo economico) compare un appello, diretto all’allora vice ministro dello Sviluppo Economico (oggi ministro) Paolo Romani, al presidente dell’Autorità per le Garanzie nella Comunicazione Corrado Calabrò e a Paolo Garimberti presidente della Rai.
L’occasione per l’appello era il rinnovo del contratto triennale di servizio tra Rai e Stato e l’obiettivo era mettere mano ad una serie di strategie e di riforme nel contratto che garantissero un approccio rispettoso e rispondente alla realtà della presenza femminile in tv.
Lanciato nel web, pubblicato da Key4biz, un importante sito specializzato nelle tematiche dell’informazione e dei media, e subito ripreso dall’emittente pubblica Rai News24, l’appello ha avuto il sostegno del
presidente della Repubblica, di gran parte delle istituzioni, è stato sottoscritto da oltre mille soggetti tra persone singole e associazioni. In particolare si è messo in moto un processo a catena in cui molte donne, della cultura, della scienza, dello spettacolo, di provenienze politiche anche molto diverse, si sono esposte ed espresse e oltre ad aderire all’appello hanno approfondito ed esteso le richieste a media e istituzioni.
Il contratto di servizio, sebbene approvato con un anno di ritardo, è stato influenzato da questo movimento di opinione e di protesta. E in questi giorni c’è stato l’avvio di incontri promossi dai ministeri dello sviluppo
economico e delle pari opportunità per dare vita a un gruppo di lavoro Donne e media che arrivi ad un codice deontologico (ne esiste già più di uno, per i minori, per i portatori di handycap) condiviso da media, industrie e pubblicità e, poi, alla formazione di una Authority che monitori, controlli e promuova la rappresentazione mediatica del mondo femminile.
Rispettosa, non sessista e rispondente all’effettiva e sfaccettata realtà delle donne. Come avviene nella gran parte dei paesi europei, in modo particolarmente attento in quelli del nord Europa. In questo campo siamo
uno dei paesi meno ricettivi.
C’è stato un intenso percorso internazionale per agire a favore della decostruzione degli stereotipi negativi e sessisti nella rappresentazione mediata degli universi femminili. Cito solo alcuni tra i più importanti:
1979 Convenzione internazionale per i diritti delle donne delle Nazioni Unite, chiede tra l’altro ai paesi firmatari l’impegno a modificare gli stereotipi sessuali sia nel privato che nella sfera pubblica, l’Italia firma
nell’80 e ratifica nell’85. Questa convenzione è stata firmata da 185 stati del mondo.
1995 Piattaforma di Pechino IV Conferenza Mondiale delle donne organizzata dall’ONU, al punto J, comma 2.36, dice che “la perdurante diffusione di immagini femminili negative e degradanti nei mezzi di
comunicazione di massa, deve terminare. I mezzi di com. di massa nella maggioranza dei pasi non forniscono una rappresentazione equilibrata della diversità della vita delle donne e del loro contributo alla vita della società in un mondo in trasformazione”.
1995 Risoluzione del Consiglio dell’Unione Europea sull’immagine dell’uomo e della donna nella pubblicità e nei media
2002 Raccomandazione del Consiglio d’Europa 1555 (L’immagine della donna nei media) in cui il sessismo viene equiparato al razzismo e si sollecitano leggi per un trattamento non svalorizzante della figura
femminile e la promozione di codici di regolamentazione su donne e media.
E per quanto ci riguarda in questa questione sono coinvolti almeno tre articoli della costituzione, 3, 51 e 117, che in vario modo affermano la parità di cittadinanza tra uomini e donne.
Non si tratta purtroppo di novità neanche a livello locale, i comitati, i tavoli tecnici, le proteste e le proposte, ma anche i libri (La mistica della femminilità, Betty Friedman, Usa 1963; Naturale come sei, Milly Buonanno 1975; La stampa femminile come ideologia, Giovanna Pezzuoli, anni ’70, e centinaia di altri testi pubblicati, letti e discussi nel corso degli anni) documenti più o meno teorici, ricerche, convegni, incontri e dibattiti, prese di posizione di associazioni professionali, eccetera, sono state esperienze ripetute e ancora, per fortuna, in corso di ripetizione, soprattutto per iniziativa e volontà di donne, negli ultimi decenni.
Si tratta di una questione veramente antica, potremmo andare indietro fino a Diotima, la donna che Socrate nomina come la sua maestra, quindi una delle maestre della filosofia occidentale, nascosta e passata come
inosservata a causa del suo essere donna nelle pieghe della storia, e riesumata dallo studio e dal lavoro di altre donne che soprattutto negli ultimi quarant’anni hanno riportato alla luce autorevolezza, sapienza,
scienza, opere d’arte di donne rimosse e dimenticate nel potente flusso della cultura patriarcale.
Vorrei citare la figura di una donna straordinaria, Olimpia De Gouges, intellettuale e rivoluzionaria girondina della Rivoluzione francese, ce ne furono numerose altre e di rilievo (club femminili, da qui si può datare
l’inizio dei movimenti moderni delle donne) autrice tra l’altro, della Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina del 1791, scritta per completare, nel senso della differenza di genere, La dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789. Affermava l’uguaglianza politica e sociale tra uomo e donna e il riconoscimento della differenza femminile nella cittadinanza. Fu ghigliottinata nel 1793, a 45 anni e i commenti successivi alla sua morte furono di irrisione e di compiacimento per la condanna, poiché “Aveva dimenticato le virtù che convenivano al suo sesso” (Pierre Gaspard Chaumette, procuratore della Comune di Parigi, discorso ai repubblicani, omosessuale, acerrimo nemico delle prostitute, attivissimo nel tribunale del periodo del Terrore, sarà poi ghigliottinato anche lui nel 1794). In quegli stessi anni furono bruciate in Svizzera (1791) e in Polonia (1793) le ultime due streghe. Nel corso di quattro secoli furono arse vive oltre due milioni di donne accusate, per la propria diversità e competenza nell’arte della cura, di essere streghe.
Di fatto, all’indomani della Rivoluzione francese alle donne è proibito definirsi cittadine, secondo una logica che le considera parte del patrimonio e delle proprietà maschili.
Questa logica è il prodotto di quell’ordine sociale e simbolico chiamato Patriarcato che la gran parte della specie umana ha assunto ad un certo punto della sua presenza sulla terra (alcune significative eccezioni si sono rivelate alla speculazione delle antropologhe, soprattutto ma non solo, penso per esempio al lavoro di Margaret Mead, al suo Maschio e femmina, uno studio dei sessi nel mondo che cambia, del 1949 England/Usa, tradotto in Italia all’inizio degli anni ’70).
Il patriarcato si è sviluppato nelle società agricole primitive ed è stato stabilizzato giuridicamente dal diffondersi delle tre grandi religioni monoteiste (ebraesimo, cristianesimo, islam) che hanno via via cancellato il ricordo della divinità femminile primordiale e la memoria di un diverso ordine sociale e simbolico chiamato matriarcato (le cui tracce sono sopravvissute a lungo nel paganesimo – dee, principi femminili autonomi - e testimoniate da reperti archeologici, ma grandi differenze nelle interpretazioni e nelle posizioni difficili da riassumere).
Sintetizzando molto si può dire che il Patriarcato si è caratterizzato come un sistema sociale in cui il potere, l’autorità e i beni materiali sono concentrati nelle mani dell’uomo, il più anziano della famiglia, e la loro
trasmissione avviene per via maschile, di solito a vantaggio del primogenito maschio. Si tratta di un'organizzazione patrilineare, fondata sull’istituto della famiglia, in cui i figli sono proprietà dell’uomo e il ruolo delle donne è sostanzialmente riproduttivo. In questo sistema il corpo delle donne è uno strumento economico (produce figli, dà struttura alla vita quotidiana, dà prestigio e potere al maschio che la/le possiede in caso di culture in cui sia in vigore la poligamia).
Questo sistema è stato messo in discussione da molte donne, e da alcuni uomini, nel corso dei secoli, ma è entrato in contraddizione e in crisi manifesta a partire dalla Rivoluzione francese (libertà, fraternità –termine
rivelatore-, uguaglianza).
E’ un ordine ormai in disfacimento, anche se in modo e misura diversi a seconda dei luoghi e delle culture. La sua fine è evidente perché la decreta il fatto che la gran parte delle donne, a tutte le latitudini, ha preso coscienza della possibilità di esistere ed agire liberamente, uscendo dal recinto della minorità e dal binomio oppressore e oppressa. Si tratta di un rapporto di forza che si gioca tra due attori, se uno dei due si sottrae l’intero ordine si scompone.
C’è un seguito a questa fine del patriarcato che stiamo vivendo. E’ un tempo di confusione simbolica e di spaesamento, soprattutto per gli uomini. Di fronte a una donna autonoma e sicura di sé, che parla invece di
stare zitta, che pensa, studia, si afferma nel modo, può capitare che molti uomini non sappiano più qual è il loro ruolo e rischino di perdersi, nella depressione o nella misoginia o nella violenza.
Ricordo che secondo il rapporto del Consiglio d’Europa del 2006 la violenza domestica è la prima causa di morte per le donne tra i 16 e i 44 anni, più del cancro, degli incidenti stradali e delle guerre.
Le statistiche e le ricerche sulla situazione del paese confermano tutte questo spostamento in avanti delle donne (citazione di Linda LauraSabbadini, dal 2000 direttora centrale Istat).
Se pensiamo che, solo per citare alcune tra le questioni: fino al 1919 è stata in vigore la norma dell’autorizzazione maritale (no lavoro, contratti o testimonianze, associazioni, imprese, disporre dei propri
beni, viaggiare); voto solo dal 1948; parità salariale sancita nel 1956, e neanche oggi davvero raggiunta;
fino al 1975 il diritto di famiglia autorizzava la correzione corporale da parte del marito-capofamiglia;
la contraccezione e l’aborto sono stati reati contro la morale e contro la razza fino al 1978; fino al 1981 è stato ammesso il delitto d’onore; fino al 1996 lo stupro è stato un delitto contro la morale pubblica e il buon costume e l’incesto un delitto contro la morale famigliare. E non delitti contro la persona.
E molto altro ancora, se pensiamo a tutti questi ostacoli vediamo che negli ultimi 40-50 anni il mondo per le donne è cambiato profondamente, ora la normalità comprende donne libere, autorevoli, che fanno riferimento le une alle altre, si sostengono, che studiano, lavorano, organizzano, gestiscono imprese, si espongono senza paura al giudizio degli uomini. La normalità comprende donne che fanno figli o non ne fanno, che stanno da sole, con uomini o con altre donne, che sanno contare su se stesse. La normalità e le norme che la governano si sono dilatate sotto la spinta della presenza femminile.
Ma c’è ancora molto da fare, e sul terreno dei media si gioca una battaglia difficile e decisiva, perché i media, quelli elettronici in particolare, in cui i linguaggi visivi e verbali si intrecciano, sono potenti catalizzatori e sviluppatori di simboli. Sono narrazioni pubbliche che alimentano l’immaginario e contribuiscono a costruire l’universo simbolico comune: cos’è e come funziona il mondo, cos’è una donna, cos’è un uomo.
Un tempo ad essere chiamati in causa erano soprattutto i mezzi a stampa, poi con l’avvento delle televisioni commerciali e con la proposizione di modelli femminili ancor più sbilanciati rispetto agli stereotipi sessuali e
svalorizzanti rispetto alle reali esperienze di vita delle donne, la critica femminile e femminista, ma non solo, si è spostata e concentrata sulla tv.
E torniamo allora alla televisione perché ci permette di esemplificare l’analisi che riguarda anche gli altri media.
Solo la bellezza fa audience? Era il titolo dell’appello di Gabriella Cims, e l’incipit era questo:
“Si potrebbe evitare di condire ogni contesto di trasmissione con un pezzo di carne di donna?”
La carne di donna in effetti è molto visibile in televisione. Le famigerate veline, eredi delle caste vallette dei primi decenni della tv, e la loro estetica cortigiana, ammiccante, spesso volgare, con i loro corpi-corazza, privi di difetti, granitici nella loro bellezza, garantiti dal desideri dell’uomo, sembrano pervadere tutti gli spazi e le fasce orarie. E sembrerebbe che ormai i modelli base proposti dalla tv, poi declinati in numerose sottoversioni, siano ormai sostanzialmente due: quello della procace e cinica, determinata a usare senza remore bellezza, gioventù e lauree per avere successo e denaro, una figura femminile che pratica l’emancipazione secondo canoni cortigiani, come si faceva nelle corti, con i sovrani e i potenti, che prevedono l’utilizzo del desiderio dello sguardo maschile per realizzare concretamente, anche monetariamente, il progetto di sé e della propria esistenza. All’estremo di questo modello c’è Terry De Nicolo e in generale la figura della donna disinibita, così popolare in questo momento e che, nonostante le apparenze di modernità e razionalità, rappresenta un modello del tutto tradizionale, rimasto a lungo
in posizione defilata, rispetto ad altri modelli, ma assurto agli onori della celebrità in questi ultimi anni per cause del tutto contingenti e locali. E’tuttavia un modello che sta influenzando intere generazioni di bambine, ebambini soprattutto appartenenti alle classi socialmente e culturalmente meno attrezzate. Quello della emancipata, seria, impegnata, con riferimenti etici e morali solidi, professionalmente preparata, tenace e tendente a fare tutto e bene, con idee e cultura, solida e lavoratrice, con impegni sociali e inserita nel proprio contesto tramite una rete di amicizie e di relazioni. A ben guardare nei palinsesti televisivi e nei racconti pubblicitari si incontrano invece molte altre figure femminili, stereotipi più sfaccettati e complessi, che rendono conto di mondi e di sfumature più pertinenti e più aderenti alla vita vera delle donne.
Ma di verità è difficile parlare quando si discorre di media, e non solo perché gli interessi e i poteri che si muovono quando è in gioco la creazione del consenso o la promozione del consumo sono tali da rendere
duttile qualunque verità.
Il fatto è che i mezzi di comunicazione hanno una struttura industriale, basata sull’economia del denaro e del profitto, e sono in realtà molto diversi e più complicati da come normalmente li si pensa. Il loro obiettivo principale non è solo né tanto quello di intrattenere e informare ma è quello di produrre pubblico, preferibilmente già selezionato in target, attraverso l’offerta differenziata di contenuti e programmi. Pubblici che sono merce pregiata da portare al ricco mercato della pubblicità, che è il core business dei media di massa. Il contesto televisivo è quello che nel corso degli anni ha acquisito la maggior rilevanza nel discorso pubblicitario, la televisione è in grado di raggiungere grandi quantità di persone in intervalli anche molto
brevi di tempo. Si tratta, dicevamo, di un contesto industriale in cui lo scopo primario è generare profitti: si compra o si produce intrattenimento al fine di produrre pubblici, la vera risorsa da cui le reti televisive traggono i loro straordinari ricavi. I pubblici, intesi come raggruppamenti di spettatori/spettatrici attenti all’offerta televisiva e definiti da caratteristiche socio-demografiche e psicografiche omogenee, vengono venduti ad un costo per ciascun contatto, agli inserzionisti pubblicitari. Si tratta di un meccanismo piuttosto complesso che viene sintetizzato dettagliatamente e visivamente nei listini che, ad ogni nuova stagione televisiva, le concessionarie di pubblicità delle emittenti diffondono tra coloro che pianificano la pubblicità televisiva per conto delle aziende. La produzione di pubblico avviene attraverso il palinsesto dei programmi. Il palinsesto è la scansione per fasce orarie dell’offerta di intrattenimento, scansione che
tiene conto delle abitudini di consumo dei vari target. Tra i target che la televisione porta al mercato della pubblicità il più prezioso ed ambito è sempre quello delle donne, un target che si suddivide al suo interno in vari sottotarget che delineano, secondo accurati criteri di segmentazione le caratteristiche e gli orientamenti di consumo e di vita.
Le donne sono in particolare fedeli spettatrici della fiction seriale e consumatrici appassionate della fiction in genere. Dunque la produzione di fiction o l’acquisto di fiction sui mercati internazionali dove questi prodotti sono messi in vendita, tiene conto, ovviamente in subordine ai conti economici predisposti dall’azienda televisiva, dei gusti e delle scelte che le donne , attraverso i dati di ascolto, mostrano nel consumo di televisione. Si tratta di capire, dunque, cosa le donne sono disposte a guardare, da quali
plot/intrecci si faranno sedurre, con quali personaggi potranno identificarsi, empatizzare, o confliggere. Questo è il cuore del problema: come produrre pubblico femminile fedele e attento da portare al mercato della pubblicità.
Poiché è un problema molto concreto e pressante - sono in gioco i profitti dell’azienda televisiva – si cerca di risolverlo con sperimentate tecniche per produrre ascolto che lasciano il meno possibile al caso.
Sul termine fiction vale la pena di fare qualche riflessione. La missione di fornire intrattenimento per produrre pubblico ha progressivamente portato la televisione a contaminare con il segno della fiction gran parte della sua offerta. Si tratta, in sostanza, di sceneggiare le varie tipologie di programmi in modo da strutturare ciascuna offerta secondo schemi di cui si è sperimentata l’efficacia. Un modo semplice è il casting (per fare un esempio: nell’edizione di Affari tuoi condotta da Paolo Bonolis la platea dello studio era composta soprattutto da popolane romane, molto attive, partecipanti e loquaci che influenzavano in modo consistente la narrazione del gioco), con la selezione del pubblico presente in sala durante un Quiz o un talk show si può delineare la reazione e l’interazione della platea e quindi dare il tono voluto al programma. Ma anche con l’ascolto si può tessere un intreccio narrativo, dando parola ad un  telespettatore che telefona per intervenire in una trasmissione piuttosto che ad un altro, chi filtra le telefonate ha il compito di scegliere chi far passare, secondo schemi dati dai responsabili della trasmissione. Si potrebbe continuare a lungo con gli esempi, il concetto è che la distinzione tra fatto – ciò che è
accaduto – e finzione – ciò che si è pensato e immaginato – in televisione è sfuggente. Non c’è tipologia di programma, compresa l’informazione (una delle tre macrotipologie televisive con l’intrattenimento e la fiction), che non sia ibridata dalla fiction. In televisione il flusso incessante dei programmi è possibile solo se viene strutturato secondo schemi progettati e sceneggiati, non si rappresenta la realtà, ma una selezione narrativa e sceneggiata di fatti che risulta più o meno veritiera a seconda del pubblico target che la recepisce.
Il palinsesto dei programmi ha il compito di sostenere e far convergere l’attenzione sul palinsesto pubblicitario, strutturato anch’esso a seconda della presenza dei vari pubblici; alla narrazione delle merci, la pubblicità, spetta poi di trovare un varco nell’attenzione di questi pubblici e uno spazio, anche piccolo purché positivo, nelle loro memorie. Se ogni merce è stata pensata, progettata e realizzata per un mercato-target, la pubblicità deve trovare il modo di tradurre ciascuna merce al suo mercato, deve cercare di stabilire una relazione simpatica, meglio se empatica, anche se strumentale, tra il target e la merce pensata per lui. Non è una cosa facile, e infatti spesso non riesce. Non si tratta solo di informare sul prodotto o di
trovare una storia che attiri in qualche modo l’attenzione, non è più così da tempo, si tratta di mettere in gioco elementi di verità che tocchino, anche lievemente, il target in questione e lo dispongano al ricordo.
Il problema è sapere a chi si sta parlando. Sapere come pensa, come parla, come si emoziona. Soprattutto come si auto-rappresenta e come vorrebbe essere. Per mettere la merce, al centro di un racconto minimo ma il più possibile aderente al sentire di chi potrebbe spendere del denaro per comprarla. Le ricerche sui consumatori e sui loro consumi rispondono in gran parte a questo bisogno di conoscenza. Si indaga su tutto e su ogni possibilità di “esperienza di acquisto”. Si seguono, si studiano, si intervistano, bambini, adolescenti, anziani, uomini, donne, soprattutto donne che comprano per sé e per gli altri, curano e tengono insieme l’ordine della vita quotidiana.
Nella comunicazione delle merci negli ultimi cent’anni ci sono state le donne bambole, le muse e le dive, le perfide, le matrici, le vamp, le miss, le gioiose massaie, le emancipate, le aggressive donne in carriera, fino alle donne in relazione tra loro e contente di sé che compaiono sempre più di frequente negli annunci dei nostri giorni. La pubblicità nel corso del ‘900 ha snocciolato stereotipi di gesti e di atteggiamenti, stereotipi di forme ed attitudini che hanno trasmesso l’immagine delle donne prendendola soprattutto dall’esperienza e dall’immaginario degli uomini. L’ordine delle cose, che per sua natura è mutevole, è stato rappresentato come armonico, rassicurante e appagante. La comunicazione delle merci non sovverte ma asseconda gli equilibri o gli squilibri sociali, si sforza di stupire per rendere avvincente il racconto, ma utilizza dettagli, scintille concettuali, effetti speciali presi dalla realtà.
 Le singolarità umane vengono raggruppate in “aggregati omogenei”, utili per conoscere la “struttura della domanda”, vale a dire i desideri e le propensioni di chi consuma. Si sondano sensazioni ed umori, si testano stanchezze e curiosità. Con tecniche che si rifanno a cose complicate come le teorie del Caos, gli algoritmi, i frattali, mescolate con le teorie psicologiche sul comportamento e quelle sociologiche sulle classificazioni sociali, e poi le tecniche per la misurazione degli atteggiamenti coniugate con le teorie dei campioni e con quelle antropologiche sull’influenza dell’ambiente nei comportamenti di consumo. E’ tutto un lavorio di interviste e questionari, analisi statistiche, economiche, demografiche, univariate e multivariate, per oggettivare, prevedere, definire emozioni e sentimenti che, come si sa, sono sostanze mobili e instabili.
E’ un inseguimento senza fine.
Le vite e le emozioni e il senso delle cose sono scomposti e ricomposti come fossero cifre, numeri. C’è una numerificazione dell’esistente che se anche non può determinare il farsi e il disfarsi del reale e del suo divenire, ingombra, confonde e sottrae.
Non è semplice sfuggire alle classificazioni. Semplificare le procedure e i processi, anche i più complessi, mappare e suddividere percorsi per razionalizzarne gli esiti, è un’attitudine che a partire dalla rivoluzione
industriale in poi non ha mai smesso di raffinarsi.
Non è un gioco senza conseguenze. Si stabilisce un flusso di significati che si accavallano e si deteriorano  continuamente, portati dai mezzi di comunicazione in ogni dove, senza distinzione tra luoghi privati e luoghi
pubblici. Suoni, immagini, parole che si sforzano di rappresentarci e di trovarci, stanno tra di noi senza che quasi, ormai, ce ne rendiamo conto.
Fanno uno spessore che non si vede e di cui quasi non si sente l’ingombro.
Come uno specchio senza profondità, che riflette la realtà e la trasforma in una filastrocca, che ferma le esperienze in quadretti verosimili ma sproporzionati, eccitati, finti. Ce n’è per ogni target.