mercoledì 30 novembre 2011

ARTICOLO SCONCERTANTE OGGI SU "LIBERO"!!!

Questo articolo è comparso oggi, 30 novembre 2011, su Libero.

Io non commento: fatelo voi!!!

25 NOVEMBRE GIORNATA INTERNAZIONALE CONTRO LA VIOLENZA ALLE DONNE

nella foto da destra: Daniela Vagni, l'assessore Donatella Ferretti, Gloria Marini e due operatrici del CAV

CAMPAGNA DEL FIOCCO BIANCO:
LA VERA FORZA E' NEL RISPETTO

La nostra Associazione ha supportato l'Amministrazione Comunale nella Campagna del Fiocco Bianco contro la violenza alle donne. E' stato infatti istallato venerdì 25 novembre, un punto presso il Centro Commerciale Oasi, dove le nostre operatrici hanno invitati uomini e donne ad indossare un fiocchetto bianco come segno di rifiuto della violenza di genere e di ogni forma di sopruso e di sopraffazione. Contestualmente sono stati distribuiti opuscoli e brochure informativi delle politiche familiari messe in atto dal Comune, nella convinzione che all'interno di una famiglia supportata e sostenuta nelle sue difficoltà, più raramente si sviluppino dinamiche violente. Sono stati distribuiti anche i pieghevoli del Centro Perlafamiglia Simona Orlini, per far conoscere al maggior numero di cittadini i servizi che lì vengono erogati dalle nostre volontarie.

GRAZIE A TUTTE LE OPERATRICI CHE SI SONO RESE DISPONIBILI PER TENERE APERTO IL PUNTO INFORMATIVO.
LA GRATUITA' AL SERVIZIO DELLA COMUNITA'.

sabato 5 novembre 2011

LA NOSTRA SOCIA. L'ARTISTA LUCIANA NESPECA

NOTA BIOGRAFICA

Nata a Roccafluvione (AP) appartiene alla generazione degli anni ’70, vive e lavora ad Ascoli Piceno in via San Germano 3. tel. 0736 258044.
Dopo la maturità in Arte Applicata ad Urbino ha frequentato i Corsi internazionali di tecniche incisorie assimilando la lezione dei grandi maestri incisori urbinati: sempre attenta ai problemi sociali, ha conseguito la laurea in Sociologia con una tesi sulla "Comunicazione iconico/tipografica del libro".
Ha insegnato incisione a Pescara e a Venezia, attualmente è docente di stampa calcografica presso l’Istituto d’Arte Statale di Ascoli Piceno. Dal 1990 dirige al Ascoli la Saletta Rosa Spina, che si è distinta per la ricerca nella grafica d’arte originale.
Conosciuta e apprezzata in campo nazionale come valida acquafortista.
Espone dal 1970 e sue opere sono visibili presso Musei e Collezioni Private.




"Tra queste donne vorrei naufragare.
Il segno di Luciana Nespeca è un solco rotondo e sottile. In realtà, invisibile. Perchè ciò che colpisce, ciò che si vede, non è il suo delimitare ma il suo contenere, il suo contenuto. E’ dunque, il miracolo e questo che l’occhio e il sentimento sono come catturati dai vuoti sontuosamente pieni. E in quei pieni, insisto, mi piacerebbe naufragare. Non tanto e non solo per l’offerta ricca di sensualissimo apparire, quanto e soprattutto per quell’invito disinvolto e scopertamente provocatorio a riconquistare i beni supremi di un’umanità da restaurare, la serenità e la pace. Che quelle donne e signore ci propongano di uscire dalla nevrastenia del nostro quotidiano per rientrare e recuperare definitivamente un paradiso perduto? Dev’essere proprio così. Perchè il secondo traguardo, nell’incidere fiabesco di Luciana Nespeca, è dato anche da un gioco indiretto e volutamente ironico di inusuali invenzioni prospettiche. Tra sogno e surrealtà.

Come a sottolineare ancor più il suo invito a entrare (a penetrare, si potrebbe maliziosamente dire), in quel suo femminilissimo mondo di quiete e di pacificazione? In quel suo paradiso perduto. Dove non ci sono più neppure le mele, perchè non c’è più neppure Adamo. E dove, finalmente, sembra possibile anche l’impossibile".

Nuccio Francesco Midera
Direttore Arte Mondadori Milano
Luglio ’99



ALCUNE SUE OPERE

  Per ricordare Peppino De Filippo, 1999
  acquaforte, vernice molle, acquatinta
  cm 50x69.2 (zinco)


  Arlecchino, 1994       
  Serigrafia a 4 colori ritoccata a mano
  cm. 70 X 50



 Donne leggere, 1996
 Incisione punta secca
 foglio 40 x 60

La mascherina. 2003/2009
Maniera a zucchero e acquatinta su carta
cm 70x50

LUCIANA HA GENTILMENTE OFFERTO LA BELLISSIMA IMMAGINE PER LA LOCANDINA DEL NOSTRO CONVEGNO MEDIAMENTEDONNA. GRAZIE!!!!



LINK UTILI PER CONOSCERE LUCIANA

http://it-it.facebook.com/people/Luciana-Nespeca
http://www.rosaspina.ap.it/
http://www.adrart.it/ArtisAlfab/luciana_nespeca.htm

venerdì 4 novembre 2011

IN MEMORIA DI UNA GRANDE DONNA. IRENA

Irena Sendler


Poco tempo fa è venuta a mancare una signora di 98 anni di nome Irena.
Durante la seconda guerra mondiale, Irena, ha ottenuto il permesso di lavorare nel ghetto di Varsavia, come Idraulica specialista.
Aveva un 'ulteriore motivo'.
Era al corrente dei piani che i nazisti avevano per gli ebrei (essendo tedesca).
Irena portò in salvo migliaia di neonati nascondendoli nel fondo della sua cassetta degli attrezzi che portava
nel retro del suo camion.
I bambini più grandi li nascondeva un sacco di iuta ...
Teneva anche un cane nel retro del camion, che aveva addestrato ad abbaiare quando i soldati nazisti
entravano e uscivano dal ghetto.
I soldati, naturalmente, temevano il cane e il suo latrato copriva il pianto dei bambini.
Durante tutto questo tempo, è riuscita a salvare 2500 tra bambini e neonati.
Fu catturata, e i nazisti le ruppero entrambe le gambe e le braccia picchiandola selvaggiamente.
Irena tenne un registro dei nomi di tutti i ragazzi che clandestinamente aveva portato fuori dai confini
lo teneva in un barattolo di vetro, sepolto sotto un albero nel suo cortile.
Dopo la guerra, cercò di rintracciare tutti i genitori che potessero essere sopravvissuti per riunire le famiglie.
La maggior parte di loro erano stati gasati. Irena ha continuato a prendersi cura di questi ragazzi, mettendoli in case famiglia o trovando loro famiglie affidatarie o adottive.
L'anno scorso Irena è stata proposta per il Premio Nobel della Pace.
Non è stata nominata.

In memoria di sei milioni di ebrei, 20 milioni di russi, 10 milioni di Cristiani e 1900 preti cattolici assassinati, massacrati, violentati, bruciati, morti di stenti e umiliati!


È di importanza fondamentale che il mondo non dimentichi, affinchè una tale barbarie non accada mai più.

martedì 27 settembre 2011

CONVEGNO MediaMenteDonna



Per riflettere sull'immagine della donna nei media. Tra strumentalizzazione e responsabilità.


Interverranno:

CLELIA PALLOTTA
Docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi – Politecnico Milano – Facoltà Disegno industriale
"Estetica cortigiana e retorica emancipatoria: storicità e fiction nella rappresentazione televisiva dell'universo femminile"

SAVERIA CAPECCHI
Docente di Sociologia della comunicazione e Sociologia della famiglia –Università di Bologna – Facoltà Lettere e filosofia
"Il corpo ''perfetto''. Genere, media e processi identitari: i dibattiti in corso"

FRANCESCO SILIATO
Docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi e di Cultura della comunicazione – Politecnico di Milano – Facoltà del Design
"Cosa guardo in TV? Il meglio e il peggio dei palinsesti televisivi secondo l'ascolto dei pubblici femminili"

LEGGI L'INTERVENTO DI CLELIA
Estetica cortigiana e retorica emancipatoria: storicità e fiction nella rappresentazione televisiva dell’universo femminile.

Intervento di Clelia Pallotta al convegno di Agire Libere
MediaMenteDonna - Ascoli Piceno 30 settembre 2011

Negli ultimi due anni ci sono state numerose proteste e iniziative di donne, ma non solo, che hanno voluto segnalare con allarme il deterioramento e il decadimento nella rappresentazione della figura femminile da parte dei media.
Si è trattato di una vera e propria campagna di sensibilizzazione dell’opinione pubblica che è iniziata nel maggio del 2009 quando Lorella Zanardo, consulente organizzativa aziendale a livello internazionale, ha
messo in rete un documentario, Il corpo delle donne, che documenta con un collage di immagini e con parole molto incisive quanto nel nostro paese le donne siano indegnamente rappresentate dai media. Il documentario, a cui e seguito un libro, è ancora visibile in rete, ha avuto una grande circolazione e uno straordinario successo, con dibattiti e discussioni sul web e fuori, nel mondo, soprattutto nelle scuole.
Nel novembre del 2009, anche per gli stimoli lanciati dal Corpo delle donne, per iniziativa di un’altra donna, Gabriella Cims (coordinatrice dell’Osservatorio sulla Direttiva dell’Unione Europea “Servizi dei media audiovisivi” istituito presso il Ministero dello sviluppo economico) compare un appello, diretto all’allora vice ministro dello Sviluppo Economico (oggi ministro) Paolo Romani, al presidente dell’Autorità per le Garanzie nella Comunicazione Corrado Calabrò e a Paolo Garimberti presidente della Rai.
L’occasione per l’appello era il rinnovo del contratto triennale di servizio tra Rai e Stato e l’obiettivo era mettere mano ad una serie di strategie e di riforme nel contratto che garantissero un approccio rispettoso e rispondente alla realtà della presenza femminile in tv.
Lanciato nel web, pubblicato da Key4biz, un importante sito specializzato nelle tematiche dell’informazione e dei media, e subito ripreso dall’emittente pubblica Rai News24, l’appello ha avuto il sostegno del
presidente della Repubblica, di gran parte delle istituzioni, è stato sottoscritto da oltre mille soggetti tra persone singole e associazioni. In particolare si è messo in moto un processo a catena in cui molte donne, della cultura, della scienza, dello spettacolo, di provenienze politiche anche molto diverse, si sono esposte ed espresse e oltre ad aderire all’appello hanno approfondito ed esteso le richieste a media e istituzioni.
Il contratto di servizio, sebbene approvato con un anno di ritardo, è stato influenzato da questo movimento di opinione e di protesta. E in questi giorni c’è stato l’avvio di incontri promossi dai ministeri dello sviluppo
economico e delle pari opportunità per dare vita a un gruppo di lavoro Donne e media che arrivi ad un codice deontologico (ne esiste già più di uno, per i minori, per i portatori di handycap) condiviso da media, industrie e pubblicità e, poi, alla formazione di una Authority che monitori, controlli e promuova la rappresentazione mediatica del mondo femminile.
Rispettosa, non sessista e rispondente all’effettiva e sfaccettata realtà delle donne. Come avviene nella gran parte dei paesi europei, in modo particolarmente attento in quelli del nord Europa. In questo campo siamo
uno dei paesi meno ricettivi.
C’è stato un intenso percorso internazionale per agire a favore della decostruzione degli stereotipi negativi e sessisti nella rappresentazione mediata degli universi femminili. Cito solo alcuni tra i più importanti:
1979 Convenzione internazionale per i diritti delle donne delle Nazioni Unite, chiede tra l’altro ai paesi firmatari l’impegno a modificare gli stereotipi sessuali sia nel privato che nella sfera pubblica, l’Italia firma
nell’80 e ratifica nell’85. Questa convenzione è stata firmata da 185 stati del mondo.
1995 Piattaforma di Pechino IV Conferenza Mondiale delle donne organizzata dall’ONU, al punto J, comma 2.36, dice che “la perdurante diffusione di immagini femminili negative e degradanti nei mezzi di
comunicazione di massa, deve terminare. I mezzi di com. di massa nella maggioranza dei pasi non forniscono una rappresentazione equilibrata della diversità della vita delle donne e del loro contributo alla vita della società in un mondo in trasformazione”.
1995 Risoluzione del Consiglio dell’Unione Europea sull’immagine dell’uomo e della donna nella pubblicità e nei media
2002 Raccomandazione del Consiglio d’Europa 1555 (L’immagine della donna nei media) in cui il sessismo viene equiparato al razzismo e si sollecitano leggi per un trattamento non svalorizzante della figura
femminile e la promozione di codici di regolamentazione su donne e media.
E per quanto ci riguarda in questa questione sono coinvolti almeno tre articoli della costituzione, 3, 51 e 117, che in vario modo affermano la parità di cittadinanza tra uomini e donne.
Non si tratta purtroppo di novità neanche a livello locale, i comitati, i tavoli tecnici, le proteste e le proposte, ma anche i libri (La mistica della femminilità, Betty Friedman, Usa 1963; Naturale come sei, Milly Buonanno 1975; La stampa femminile come ideologia, Giovanna Pezzuoli, anni ’70, e centinaia di altri testi pubblicati, letti e discussi nel corso degli anni) documenti più o meno teorici, ricerche, convegni, incontri e dibattiti, prese di posizione di associazioni professionali, eccetera, sono state esperienze ripetute e ancora, per fortuna, in corso di ripetizione, soprattutto per iniziativa e volontà di donne, negli ultimi decenni.
Si tratta di una questione veramente antica, potremmo andare indietro fino a Diotima, la donna che Socrate nomina come la sua maestra, quindi una delle maestre della filosofia occidentale, nascosta e passata come
inosservata a causa del suo essere donna nelle pieghe della storia, e riesumata dallo studio e dal lavoro di altre donne che soprattutto negli ultimi quarant’anni hanno riportato alla luce autorevolezza, sapienza,
scienza, opere d’arte di donne rimosse e dimenticate nel potente flusso della cultura patriarcale.
Vorrei citare la figura di una donna straordinaria, Olimpia De Gouges, intellettuale e rivoluzionaria girondina della Rivoluzione francese, ce ne furono numerose altre e di rilievo (club femminili, da qui si può datare
l’inizio dei movimenti moderni delle donne) autrice tra l’altro, della Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina del 1791, scritta per completare, nel senso della differenza di genere, La dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789. Affermava l’uguaglianza politica e sociale tra uomo e donna e il riconoscimento della differenza femminile nella cittadinanza. Fu ghigliottinata nel 1793, a 45 anni e i commenti successivi alla sua morte furono di irrisione e di compiacimento per la condanna, poiché “Aveva dimenticato le virtù che convenivano al suo sesso” (Pierre Gaspard Chaumette, procuratore della Comune di Parigi, discorso ai repubblicani, omosessuale, acerrimo nemico delle prostitute, attivissimo nel tribunale del periodo del Terrore, sarà poi ghigliottinato anche lui nel 1794). In quegli stessi anni furono bruciate in Svizzera (1791) e in Polonia (1793) le ultime due streghe. Nel corso di quattro secoli furono arse vive oltre due milioni di donne accusate, per la propria diversità e competenza nell’arte della cura, di essere streghe.
Di fatto, all’indomani della Rivoluzione francese alle donne è proibito definirsi cittadine, secondo una logica che le considera parte del patrimonio e delle proprietà maschili.
Questa logica è il prodotto di quell’ordine sociale e simbolico chiamato Patriarcato che la gran parte della specie umana ha assunto ad un certo punto della sua presenza sulla terra (alcune significative eccezioni si sono rivelate alla speculazione delle antropologhe, soprattutto ma non solo, penso per esempio al lavoro di Margaret Mead, al suo Maschio e femmina, uno studio dei sessi nel mondo che cambia, del 1949 England/Usa, tradotto in Italia all’inizio degli anni ’70).
Il patriarcato si è sviluppato nelle società agricole primitive ed è stato stabilizzato giuridicamente dal diffondersi delle tre grandi religioni monoteiste (ebraesimo, cristianesimo, islam) che hanno via via cancellato il ricordo della divinità femminile primordiale e la memoria di un diverso ordine sociale e simbolico chiamato matriarcato (le cui tracce sono sopravvissute a lungo nel paganesimo – dee, principi femminili autonomi - e testimoniate da reperti archeologici, ma grandi differenze nelle interpretazioni e nelle posizioni difficili da riassumere).
Sintetizzando molto si può dire che il Patriarcato si è caratterizzato come un sistema sociale in cui il potere, l’autorità e i beni materiali sono concentrati nelle mani dell’uomo, il più anziano della famiglia, e la loro
trasmissione avviene per via maschile, di solito a vantaggio del primogenito maschio. Si tratta di un'organizzazione patrilineare, fondata sull’istituto della famiglia, in cui i figli sono proprietà dell’uomo e il ruolo delle donne è sostanzialmente riproduttivo. In questo sistema il corpo delle donne è uno strumento economico (produce figli, dà struttura alla vita quotidiana, dà prestigio e potere al maschio che la/le possiede in caso di culture in cui sia in vigore la poligamia).
Questo sistema è stato messo in discussione da molte donne, e da alcuni uomini, nel corso dei secoli, ma è entrato in contraddizione e in crisi manifesta a partire dalla Rivoluzione francese (libertà, fraternità –termine
rivelatore-, uguaglianza).
E’ un ordine ormai in disfacimento, anche se in modo e misura diversi a seconda dei luoghi e delle culture. La sua fine è evidente perché la decreta il fatto che la gran parte delle donne, a tutte le latitudini, ha preso coscienza della possibilità di esistere ed agire liberamente, uscendo dal recinto della minorità e dal binomio oppressore e oppressa. Si tratta di un rapporto di forza che si gioca tra due attori, se uno dei due si sottrae l’intero ordine si scompone.
C’è un seguito a questa fine del patriarcato che stiamo vivendo. E’ un tempo di confusione simbolica e di spaesamento, soprattutto per gli uomini. Di fronte a una donna autonoma e sicura di sé, che parla invece di
stare zitta, che pensa, studia, si afferma nel modo, può capitare che molti uomini non sappiano più qual è il loro ruolo e rischino di perdersi, nella depressione o nella misoginia o nella violenza.
Ricordo che secondo il rapporto del Consiglio d’Europa del 2006 la violenza domestica è la prima causa di morte per le donne tra i 16 e i 44 anni, più del cancro, degli incidenti stradali e delle guerre.
Le statistiche e le ricerche sulla situazione del paese confermano tutte questo spostamento in avanti delle donne (citazione di Linda LauraSabbadini, dal 2000 direttora centrale Istat).
Se pensiamo che, solo per citare alcune tra le questioni: fino al 1919 è stata in vigore la norma dell’autorizzazione maritale (no lavoro, contratti o testimonianze, associazioni, imprese, disporre dei propri
beni, viaggiare); voto solo dal 1948; parità salariale sancita nel 1956, e neanche oggi davvero raggiunta;
fino al 1975 il diritto di famiglia autorizzava la correzione corporale da parte del marito-capofamiglia;
la contraccezione e l’aborto sono stati reati contro la morale e contro la razza fino al 1978; fino al 1981 è stato ammesso il delitto d’onore; fino al 1996 lo stupro è stato un delitto contro la morale pubblica e il buon costume e l’incesto un delitto contro la morale famigliare. E non delitti contro la persona.
E molto altro ancora, se pensiamo a tutti questi ostacoli vediamo che negli ultimi 40-50 anni il mondo per le donne è cambiato profondamente, ora la normalità comprende donne libere, autorevoli, che fanno riferimento le une alle altre, si sostengono, che studiano, lavorano, organizzano, gestiscono imprese, si espongono senza paura al giudizio degli uomini. La normalità comprende donne che fanno figli o non ne fanno, che stanno da sole, con uomini o con altre donne, che sanno contare su se stesse. La normalità e le norme che la governano si sono dilatate sotto la spinta della presenza femminile.
Ma c’è ancora molto da fare, e sul terreno dei media si gioca una battaglia difficile e decisiva, perché i media, quelli elettronici in particolare, in cui i linguaggi visivi e verbali si intrecciano, sono potenti catalizzatori e sviluppatori di simboli. Sono narrazioni pubbliche che alimentano l’immaginario e contribuiscono a costruire l’universo simbolico comune: cos’è e come funziona il mondo, cos’è una donna, cos’è un uomo.
Un tempo ad essere chiamati in causa erano soprattutto i mezzi a stampa, poi con l’avvento delle televisioni commerciali e con la proposizione di modelli femminili ancor più sbilanciati rispetto agli stereotipi sessuali e
svalorizzanti rispetto alle reali esperienze di vita delle donne, la critica femminile e femminista, ma non solo, si è spostata e concentrata sulla tv.
E torniamo allora alla televisione perché ci permette di esemplificare l’analisi che riguarda anche gli altri media.
Solo la bellezza fa audience? Era il titolo dell’appello di Gabriella Cims, e l’incipit era questo:
“Si potrebbe evitare di condire ogni contesto di trasmissione con un pezzo di carne di donna?”
La carne di donna in effetti è molto visibile in televisione. Le famigerate veline, eredi delle caste vallette dei primi decenni della tv, e la loro estetica cortigiana, ammiccante, spesso volgare, con i loro corpi-corazza, privi di difetti, granitici nella loro bellezza, garantiti dal desideri dell’uomo, sembrano pervadere tutti gli spazi e le fasce orarie. E sembrerebbe che ormai i modelli base proposti dalla tv, poi declinati in numerose sottoversioni, siano ormai sostanzialmente due: quello della procace e cinica, determinata a usare senza remore bellezza, gioventù e lauree per avere successo e denaro, una figura femminile che pratica l’emancipazione secondo canoni cortigiani, come si faceva nelle corti, con i sovrani e i potenti, che prevedono l’utilizzo del desiderio dello sguardo maschile per realizzare concretamente, anche monetariamente, il progetto di sé e della propria esistenza. All’estremo di questo modello c’è Terry De Nicolo e in generale la figura della donna disinibita, così popolare in questo momento e che, nonostante le apparenze di modernità e razionalità, rappresenta un modello del tutto tradizionale, rimasto a lungo
in posizione defilata, rispetto ad altri modelli, ma assurto agli onori della celebrità in questi ultimi anni per cause del tutto contingenti e locali. E’tuttavia un modello che sta influenzando intere generazioni di bambine, ebambini soprattutto appartenenti alle classi socialmente e culturalmente meno attrezzate. Quello della emancipata, seria, impegnata, con riferimenti etici e morali solidi, professionalmente preparata, tenace e tendente a fare tutto e bene, con idee e cultura, solida e lavoratrice, con impegni sociali e inserita nel proprio contesto tramite una rete di amicizie e di relazioni. A ben guardare nei palinsesti televisivi e nei racconti pubblicitari si incontrano invece molte altre figure femminili, stereotipi più sfaccettati e complessi, che rendono conto di mondi e di sfumature più pertinenti e più aderenti alla vita vera delle donne.
Ma di verità è difficile parlare quando si discorre di media, e non solo perché gli interessi e i poteri che si muovono quando è in gioco la creazione del consenso o la promozione del consumo sono tali da rendere
duttile qualunque verità.
Il fatto è che i mezzi di comunicazione hanno una struttura industriale, basata sull’economia del denaro e del profitto, e sono in realtà molto diversi e più complicati da come normalmente li si pensa. Il loro obiettivo principale non è solo né tanto quello di intrattenere e informare ma è quello di produrre pubblico, preferibilmente già selezionato in target, attraverso l’offerta differenziata di contenuti e programmi. Pubblici che sono merce pregiata da portare al ricco mercato della pubblicità, che è il core business dei media di massa. Il contesto televisivo è quello che nel corso degli anni ha acquisito la maggior rilevanza nel discorso pubblicitario, la televisione è in grado di raggiungere grandi quantità di persone in intervalli anche molto
brevi di tempo. Si tratta, dicevamo, di un contesto industriale in cui lo scopo primario è generare profitti: si compra o si produce intrattenimento al fine di produrre pubblici, la vera risorsa da cui le reti televisive traggono i loro straordinari ricavi. I pubblici, intesi come raggruppamenti di spettatori/spettatrici attenti all’offerta televisiva e definiti da caratteristiche socio-demografiche e psicografiche omogenee, vengono venduti ad un costo per ciascun contatto, agli inserzionisti pubblicitari. Si tratta di un meccanismo piuttosto complesso che viene sintetizzato dettagliatamente e visivamente nei listini che, ad ogni nuova stagione televisiva, le concessionarie di pubblicità delle emittenti diffondono tra coloro che pianificano la pubblicità televisiva per conto delle aziende. La produzione di pubblico avviene attraverso il palinsesto dei programmi. Il palinsesto è la scansione per fasce orarie dell’offerta di intrattenimento, scansione che
tiene conto delle abitudini di consumo dei vari target. Tra i target che la televisione porta al mercato della pubblicità il più prezioso ed ambito è sempre quello delle donne, un target che si suddivide al suo interno in vari sottotarget che delineano, secondo accurati criteri di segmentazione le caratteristiche e gli orientamenti di consumo e di vita.
Le donne sono in particolare fedeli spettatrici della fiction seriale e consumatrici appassionate della fiction in genere. Dunque la produzione di fiction o l’acquisto di fiction sui mercati internazionali dove questi prodotti sono messi in vendita, tiene conto, ovviamente in subordine ai conti economici predisposti dall’azienda televisiva, dei gusti e delle scelte che le donne , attraverso i dati di ascolto, mostrano nel consumo di televisione. Si tratta di capire, dunque, cosa le donne sono disposte a guardare, da quali
plot/intrecci si faranno sedurre, con quali personaggi potranno identificarsi, empatizzare, o confliggere. Questo è il cuore del problema: come produrre pubblico femminile fedele e attento da portare al mercato della pubblicità.
Poiché è un problema molto concreto e pressante - sono in gioco i profitti dell’azienda televisiva – si cerca di risolverlo con sperimentate tecniche per produrre ascolto che lasciano il meno possibile al caso.
Sul termine fiction vale la pena di fare qualche riflessione. La missione di fornire intrattenimento per produrre pubblico ha progressivamente portato la televisione a contaminare con il segno della fiction gran parte della sua offerta. Si tratta, in sostanza, di sceneggiare le varie tipologie di programmi in modo da strutturare ciascuna offerta secondo schemi di cui si è sperimentata l’efficacia. Un modo semplice è il casting (per fare un esempio: nell’edizione di Affari tuoi condotta da Paolo Bonolis la platea dello studio era composta soprattutto da popolane romane, molto attive, partecipanti e loquaci che influenzavano in modo consistente la narrazione del gioco), con la selezione del pubblico presente in sala durante un Quiz o un talk show si può delineare la reazione e l’interazione della platea e quindi dare il tono voluto al programma. Ma anche con l’ascolto si può tessere un intreccio narrativo, dando parola ad un  telespettatore che telefona per intervenire in una trasmissione piuttosto che ad un altro, chi filtra le telefonate ha il compito di scegliere chi far passare, secondo schemi dati dai responsabili della trasmissione. Si potrebbe continuare a lungo con gli esempi, il concetto è che la distinzione tra fatto – ciò che è
accaduto – e finzione – ciò che si è pensato e immaginato – in televisione è sfuggente. Non c’è tipologia di programma, compresa l’informazione (una delle tre macrotipologie televisive con l’intrattenimento e la fiction), che non sia ibridata dalla fiction. In televisione il flusso incessante dei programmi è possibile solo se viene strutturato secondo schemi progettati e sceneggiati, non si rappresenta la realtà, ma una selezione narrativa e sceneggiata di fatti che risulta più o meno veritiera a seconda del pubblico target che la recepisce.
Il palinsesto dei programmi ha il compito di sostenere e far convergere l’attenzione sul palinsesto pubblicitario, strutturato anch’esso a seconda della presenza dei vari pubblici; alla narrazione delle merci, la pubblicità, spetta poi di trovare un varco nell’attenzione di questi pubblici e uno spazio, anche piccolo purché positivo, nelle loro memorie. Se ogni merce è stata pensata, progettata e realizzata per un mercato-target, la pubblicità deve trovare il modo di tradurre ciascuna merce al suo mercato, deve cercare di stabilire una relazione simpatica, meglio se empatica, anche se strumentale, tra il target e la merce pensata per lui. Non è una cosa facile, e infatti spesso non riesce. Non si tratta solo di informare sul prodotto o di
trovare una storia che attiri in qualche modo l’attenzione, non è più così da tempo, si tratta di mettere in gioco elementi di verità che tocchino, anche lievemente, il target in questione e lo dispongano al ricordo.
Il problema è sapere a chi si sta parlando. Sapere come pensa, come parla, come si emoziona. Soprattutto come si auto-rappresenta e come vorrebbe essere. Per mettere la merce, al centro di un racconto minimo ma il più possibile aderente al sentire di chi potrebbe spendere del denaro per comprarla. Le ricerche sui consumatori e sui loro consumi rispondono in gran parte a questo bisogno di conoscenza. Si indaga su tutto e su ogni possibilità di “esperienza di acquisto”. Si seguono, si studiano, si intervistano, bambini, adolescenti, anziani, uomini, donne, soprattutto donne che comprano per sé e per gli altri, curano e tengono insieme l’ordine della vita quotidiana.
Nella comunicazione delle merci negli ultimi cent’anni ci sono state le donne bambole, le muse e le dive, le perfide, le matrici, le vamp, le miss, le gioiose massaie, le emancipate, le aggressive donne in carriera, fino alle donne in relazione tra loro e contente di sé che compaiono sempre più di frequente negli annunci dei nostri giorni. La pubblicità nel corso del ‘900 ha snocciolato stereotipi di gesti e di atteggiamenti, stereotipi di forme ed attitudini che hanno trasmesso l’immagine delle donne prendendola soprattutto dall’esperienza e dall’immaginario degli uomini. L’ordine delle cose, che per sua natura è mutevole, è stato rappresentato come armonico, rassicurante e appagante. La comunicazione delle merci non sovverte ma asseconda gli equilibri o gli squilibri sociali, si sforza di stupire per rendere avvincente il racconto, ma utilizza dettagli, scintille concettuali, effetti speciali presi dalla realtà.
 Le singolarità umane vengono raggruppate in “aggregati omogenei”, utili per conoscere la “struttura della domanda”, vale a dire i desideri e le propensioni di chi consuma. Si sondano sensazioni ed umori, si testano stanchezze e curiosità. Con tecniche che si rifanno a cose complicate come le teorie del Caos, gli algoritmi, i frattali, mescolate con le teorie psicologiche sul comportamento e quelle sociologiche sulle classificazioni sociali, e poi le tecniche per la misurazione degli atteggiamenti coniugate con le teorie dei campioni e con quelle antropologiche sull’influenza dell’ambiente nei comportamenti di consumo. E’ tutto un lavorio di interviste e questionari, analisi statistiche, economiche, demografiche, univariate e multivariate, per oggettivare, prevedere, definire emozioni e sentimenti che, come si sa, sono sostanze mobili e instabili.
E’ un inseguimento senza fine.
Le vite e le emozioni e il senso delle cose sono scomposti e ricomposti come fossero cifre, numeri. C’è una numerificazione dell’esistente che se anche non può determinare il farsi e il disfarsi del reale e del suo divenire, ingombra, confonde e sottrae.
Non è semplice sfuggire alle classificazioni. Semplificare le procedure e i processi, anche i più complessi, mappare e suddividere percorsi per razionalizzarne gli esiti, è un’attitudine che a partire dalla rivoluzione
industriale in poi non ha mai smesso di raffinarsi.
Non è un gioco senza conseguenze. Si stabilisce un flusso di significati che si accavallano e si deteriorano  continuamente, portati dai mezzi di comunicazione in ogni dove, senza distinzione tra luoghi privati e luoghi
pubblici. Suoni, immagini, parole che si sforzano di rappresentarci e di trovarci, stanno tra di noi senza che quasi, ormai, ce ne rendiamo conto.
Fanno uno spessore che non si vede e di cui quasi non si sente l’ingombro.
Come uno specchio senza profondità, che riflette la realtà e la trasforma in una filastrocca, che ferma le esperienze in quadretti verosimili ma sproporzionati, eccitati, finti. Ce n’è per ogni target.

lunedì 13 giugno 2011

http://www.fondazioneorlini.it/


La Fondazione Simona Orlini Onlus nasce in memoria di Simona, dall'impegno dei coniugi Orlini. Prematuramente privati dell'affetto della loro unica figlia, attraverso le attività della Fondazione che porta il suo nome, ne conservano il ricordo legandolo ad iniziative benefiche in favore della collettività ed in particolar modo dei soggetti più bisognosi.
 
SOSTIENI LE ATTIVITA' DELLA FONDAZIONE ORLINI!
Puoi contribuire in due modi:

1) Attraverso il conto corrente della Fondazione che ha le seguenti coordinate bancarie:
Fondazione Simona Orlini Onlus presso: CARISAP Spa - sede di Ascoli Piceno
codice IBAN: IT 73 I 06080 1350 1000000018300

E' necessario conservare la ricevuta del versamento per poter usufruire, nella dichiarazione dei redditi, delle agevolazioni fiscali*
*Agevolazioni fiscali: La Fondazione Simona Orlini è una ONLUS (Organizzazione non lucrativa di utilità sociale), pertanto, ai sensi dell' art.13 del decreto legislativo n.460 del 4/12/97 e dell'art. 14 del decreto legge n. 35 del 14/3/05, convertito in legge n.80 del 14/5/05, sono previsti benefici per gli individui e per le imprese che versano contributi in suo favore.

2) Destinando il 5 PER MILLE delle imposte sul reddito con la scelta "FONDAZIONE SIMONA ORLINI" e l'indicazione del codice fiscale 92026170446 nella dichiarazione dei redditi.

GRAZIE!

IL SOTTOSEGRETARIO EUGENIA ROCCELLA AL CENTRO PERLAFAMIGLIA SIMONA ORLINI

Il sottosegretario alla Sanità Eugenia Roccella ha visitato il Centro Perlafamiglia Simona Orlini di Monticelli insieme al Sindaco Guido Castelli e all’Assessore Donatella Ferretti, incontrando le operatrici e la responsabile, sig.ra Domenica Migliori.


L’onorevole si è rallegrata per l’iniziativa volta a sostenere le famiglie soprattutto nei momenti di difficoltà, con l’offerta di una pluralità di servizi tra i quali, importantissimi, l’accoglienza e il sostegno scolastico a bambini e ragazzi. “L’Italia, ricorda la Roccella, costituisce una eccezione per il senso ancora molto forte dei legami familiari e per il rispetto della vita umana, testimoniato anche dal basso numero di aborti che ci colloca al penultimo posto tra i paesi europei”. Il Sindaco ha richiamato i valori fondamentali cui l’Amministrazione fa riferimento, primo fra tutti la salvaguardia e la tutela della vita in tutte le sue fasi, in continuità con l’azione di governo portata avanti dalla stessa Roccella con la proposta di legge sulle disposizioni di volontà anticipate nei trattamenti sanitari. L’assessore Ferretti ha consegnato al sottosegretario un opuscolo sulle politiche familiari messe in atto dal Comune di Ascoli, a testimonianza dell’impegno dell’Amministrazione Castelli, nonostante il grave momento di difficoltà economica, a rispondere nel modo più efficace possibile alle molteplici esigenze dei cittadini. Il Centro Perlafamiglia è aperto dal lunedì al venerdì dalle 10 alle 12 di mattina e dalle 16 alle 18 di pomeriggio. Per informazioni si può telefonare al numero 0736 348957 o visitare il profilo su Facebook. E’ possibile contattare gli operatori anche mandando una mail all’indirizzo perlafamiglia.ap@libero.it. Il 29 giugno a partire dalle ore 16, ci sarà una festa merenda per i bambini, con un Punto Mamma dove un’esperta darà informazioni alle neo mamme per la cura dei loro piccoli.

Il sottosegretario Roccella con il Sindaco Castelli, l'Assessore Ferretti e le operatrici del Centro (al centro Piero)

Da sinistra: Alessia, Sabrina, Daniela, Paola e Mimma.

lunedì 30 maggio 2011

CENTRO PERLAMIGLIA SIMONA ORLINI



E’ nato ad Ascoli Piceno il “Centro Perlafamiglia Simona Orlini” nel quartiere di Monticelli, in L.go delle Mimose 30.
Il Centro va ad integrarsi alle rete di servizi che il Comune ha iniziato a costruire fin dal suo insediamento, per sostenere e supportare la famiglia nei compiti di cura e di assistenza che si trova a svolgere nei confronti di bambini, anziani, disabili e per rispondere alle molteplici esigenze che possono sorgere al suo interno. Il Centro, che gode di un contributo d parte della Fondazione Orlini, è gestito dalle operatrici dell’associazione femminile Agirelibere, si pone innanzi tutto come punto di informazione e di orientamento ai servizi presenti sul territorio, in stretta collaborazione con i Servizi Sociali e con l’Ambito Territoriale XXII, oltre ad offrire consulenze gratuite in campo legale, fiscale e psicologico. Al funzionamento del Centro collaborano numerose associazioni: la Camera Minorile Picena per le problematiche che riguardano i minori, il CAV per sostenere la maternità, il Movimento Cristiano Lavoratori per l’integrazione culturale, IL PONTE per la mediazione familiare e la Banca del Tempo che mette a disposizione i volontari per il sostegno scolastico pomeridiano ai bambini della scuola elementare e media. Al Centro si può accedere direttamente dal lunedì al venerdì dalle 10 alle 12 e dalle 16 alle 18. Nelle stesse ore si può chiamare al numero 0736 348957. E’ possibile contattare gli operatori mandando una mail all’indirizzo perlafamiglia.ap@libero.it. Il Centro ha un profilo su Facebook.

lunedì 9 maggio 2011

LE DONNE DEL RISORGIMENTO ITALIANO




Piccola Italia, non avevi corone turrite
né matronali gramaglie.
Eri una ragazza scalza,
coi capelli sul viso
e piangevi
e speravi.
Elena Bono, una delle più alte voci poetiche del ‘900

Il contributo che le donne diedero al processo che trasformò un’idea nella realtà dell’Italia unita dalla Lombardia alla Sicilia, si espresse in forme di partecipazione diverse, che lo resero meno eroico e dunque più oscuro, tanto che i loro nomi risultano oggi sconosciuti ai più e neanche citati nei libri di storia.
Vogliamo qui, per quanto è possibile, rompere uno schema consolidato, quello della “donna risorgimentale” come figura polarizzata tra l’eroismo estremo di Anita Garibaldi così come è effigiata nel monumento al Gianicolo, a cavallo con i capelli al vento e la pistola in mano, e il sostegno costante e silenzioso offerto dalle madri, le spose, le figlie.
L’apporto femminile fu non marginale e non limitato alla partecipazione più o meno attiva alla fase di unificazione dello Stato italiano, ma proseguì nel tempo, concretizzandosi in iniziative di alto valore civile e sociale.
Quindi senza dimenticare o sminuire l’operato di tante sostenitrici della causa che hanno assicurato il loro appoggio agli uomini nelle rivolte, nella clandestinità, nella prigionia, si tenterà di mettere in luce figure di donne che da vere protagoniste hanno segnato una decisa maturazione culturale e civile.

DONNE COMBATTENTI
Quando si pensa alle donne combattenti del Risorgimento, la prima immagine che affiora alla mente è quella di Anita, vera eroina guerriera, compagna valorosa dell’eroe dei due mondi. Ma molte donne del popolo scesero in battaglia, magari per un giorno, spesso trovando la morte, così come molte furono le donne trucidate, offese, violate. Ricordiamo le donne siciliane nei moti del gennaio 1848 a Palermo, che combatterono a fianco degli uomini, vestite da uomo, come Rosa Donato che poi, dopo la restaurazione fu imprigionata per 15 mesi e torturata per ottenere informazioni sui cospiratori. Ma anche le donne che scesero in strada nelle “Cinque giornate di Milano” da 18 al 22 marzo dello stesso anno, combattenti eccezionali che spararono dalle barricate o lanciarono sassi, tegole ed altri oggetti dalle finestre. Molte morirono, anche giovanissime, e quando, la mattina del 6 aprile si celebrarono solenni esequie in onore dei caduti delle cinque giornate, fra le varie iscrizioni poste attorno al catafalco se ne leggeva una interamente dedicata alle donne:
“Animose donne, nel vostro cuore di madri, nell’esempio delle vostre sorelle che posero per la patria la vita, voi troverete il coraggio delle forti virtù cittadine, emulatrici delle siciliane voi cancellerete tre secoli di codarda mollezza e, ritemprate a severi dolori a gioie severe, vi farete degne compagne d’uomini liberi”.
Protagonista della rivolta napoletana fu Marianna De Crescenzo, detta “la Sangiovannara”, un personaggio discusso che fu addirittura beneficiata da Garibaldi di una pensione per il ruolo avuto nella liberazione di Napoli. Era una donna del popolo che possedeva un’osteria, dotata di un grande ascendente sulla gente del suo quartiere, il famoso quartiere di Pignasecca, tanto che fu grazie alle sue doti di grande trascinatrice che la popolazione aderì numerosa alle rivolte, persuasa dalla Sangiovannara che bisognava abbandonare i Borboni e seguire o rre galantuomo e Garibaldi.
Anche l’audace e drammatica impresa del napoletano Carlo Pisacane porta l’impronta di una donna coraggiosa, Enrichetta Di Lorenzo che, se pur già sposata, amò e seguì Carlo sfidando la mentalità del tempo. La loro situazione irregolare comportò gravi disagi e sacrifici: fuggirono da Napoli e, in seguito alla denuncia del marito di lei furono arrestati. La loro prima figlia morì poco dopo la nascita. Nel 1848, con le notizie dei moti insurrezionali contro i Borbone a Palermo e delle giornate milanesi, Carlo si impegnò nella lotta prima nel Lombardo-Veneto, poi a Roma nel 1849 dove Enrichetta prestò la sua opera per curare i feriti e i moribondi combattenti della Repubblica, al fianco di altre donne celebri, come Cristina di Belgioioso. Quando Carlo fu arrestato e rinchiuso a Castel Sant’Angelo, fu lei a prodigarsi disperata per ottenerne la liberazione. La loro avventura personale e politica ebbe tuttavia fine con l’impresa di Sapri, che Enrichetta aveva avversato da subito, inutilmente. La spedizione fu organizzata in seguito ai contatti con il Comitato Insurrezionale Repubblicano del meridione e aveva lo scopo di sollevare le popolazioni del sud contemporaneamente alla spedizione mazziniana al nord. Frattanto, a causa delle attività sovversive del compagno, Enrichetta fu cacciata da Genova, dove si trovava con la figlia Silvia, e trovò rifugio a Torino. Come lei temeva la spedizione di Sapri ebbe un esito drammatico: “Eran trecento eran giovani e forti e sono morti”, raccontò Luigi Mercantini, commemorando così la scomparsa di un audace eroe. Solo dopo l’impresa garibaldina dei Mille, finì l’esilio di Enrichetta da Napoli, dove potè rientrare senza rischio di essere nuovamente arrestata. Collaborerà in seguito al “Comitato di donne per Roma capitale”, fondato nel 1862 a sostegno delle imprese garibaldine.
Senza dubbio la donna che più di altre rappresenta l’eroismo guerriero femminile è Anita Garibaldi, la ragazza brasiliana che, a soli 18 anni, si innamorò dell’eroe dei due mondi e partì con lui, condividendo con coraggio il suo destino, fina alla morte che la colse nelle valli di Comacchio dieci anni dopo, incinta del quinto figlio, dopo una fuga durata 33 giorni. Al fianco del suo uomo in ogni circostanza, dando un contributo fattivo, sempre dimentica dei pericoli che correva, come lo stesso Garibaldi scrive nelle sue Memorie: “La mia Anita era il mio tesoro, non men fervida di me per la sacrosanta causa dei popoli e per una vita avventurosa”. Celebre l’episodio avvenuto solo dieci giorni dopo la nascita del primo figlio Menotti quando, assente Garibaldi, le truppe imperiali circondarono la casa dove si trovava Anita con il neonato, inducendola a fuggire. E’ immortalata nel quadro a olio che la raffigura a cavallo di notte, coperta solo dalla camicia con in braccio il bambino di pochi giorni, che fu esposto a Roma in occasione del cinquantenario dell’unità d’Italia, ora al Museo del Risorgimento, a Roma. Sempre presente a incoraggiare, a sostenere e ad incitare, Anita fu un esempio costante per i soldati che ne ammiravano la tenacia e la resistenza fisica. L’epilogo della storia di Anita, coraggiosa amazzone sudamericana e moglie carismatica del personaggio più eclatante della storia italiana dell’800, inizia con lo sfortunato sbarco dei volontari garibaldini presso Comacchio, quando lei era già moribonda per gli stenti sofferti in stato di avanzata gravidanza. Garibaldi la portò a braccia in una casupola dove spirò senza riprendere conoscenza. Purtroppo non ebbe pace neanche nella morte, poiché Garibaldi dovette immediatamente fuggire e il suo corpo fu sepolto frettolosamente, poi scoperto dalle autorità, portato via e di nuovo sepolto da amici, ma anche stavolta non accuratamente tanto da essere rosicchiato dagli animali. Solo nel 1859 Garibaldi riuscì a far rientrare le sue spoglie a Nizza, dove furono accanto a quelle della madre di lui.

DONNE INTELLETTUALI
Un articolo apparso sul Secolo XIX nell’aprile del 2003 titolava: “I salotti in cui si fece l’Italia”, con un chiaro riferimento all’importanza dei salotti ottocenteschi nella costruzione del Risorgimento italiano e al ruolo sostenuto dalle salonnières del tempo, nella diffusione degli ideali risorgimentali. Milano, Firenze, Torino, Genova, Venezia e Roma furono le sedi dei salotti più importanti, ed ognuno era in genere conosciuto con il nome della padrona di casa. Nei salotti le donne avevano completa libertà di azione e di gestione anzi, possiamo dire che proprio attraverso i salotti le donne riuscirono a creare uno spazio di aggregazione e di espressione all’interno del quale avevano piena legittimità, che veniva loro riconosciuta anche dai numerosi e eccellenti ospiti maschili che venivano invitati. Una sorta di “zona franca” dove certamente vigevano regole ferree riguardo al censo e al “bon ton”, ma che garantiva la libertà di pensiero e di opinione, tanto da diventare spesso vere e proprie fucine di patriottismo, nelle quali esuli e politici potevano ritrovarsi per discutere e, a volte anche progettare azioni sovversive. L’età d’oro dei salotti si può collocare tra gli anni ’20 e ’30 del secolo fino a circa vent’anni dopo l’unità d’Italia, anche se il periodo di maggiore fioritura dei salotti patriottici si concentra nel cosiddetto biennio riformatore, quello tra il 1846 e il 1848 e nel decennio successivo che va dal 1850 al 1860, il famoso decennio di preparazione. Ovviamente la politica non è l’unico argomento di discussione, molta parte dell’attività era dedicata alla lettura e al commento di testi letterari o poetici, alle discussioni sul costume ed anche alla cronaca locale e al pettegolezzo. Tuttavia di politica si parla molto, e di politica di opposizione, tanto che i salotti attirano l’attenzione e la diffidenza della polizia segreta asburgica. Molto ricercati erano gli improvvisatori, poeti capaci di improvvisare versi partendo da una suggestione offerta al momento e, tra questi brillò nei salotti di tutta la penisola una giovane teramana, Giannina Milli che, per i temi fortemente patriottici delle sue composizioni, ricevette, come si legge in una sua biografia, “ammonizioni, richiami e severe censure dalla polizia, che avrebbe voluto legare con un laccio invisibile le sue caviglie, per impedirle di innalzarsi e volare spiritualmente imbracciando la bandiera tricolore”. La Milli fece dell’improvvisazione un elemento attraente e trascinante della poesia patriottica, qualificandola dal punto di vista artistico e facendone anche un rilevante mezzo di diffusione e di propaganda degli ideali risorgimentali, grazie al suo continuo peregrinare per le città italiane, richiestissima nei salotti come nei teatri. I suoi versi, che cantavano “Dio, la famiglia e la Patria, le grandezze, i dolori e le speranze d’Italia”, ne fecero un vero e proprio fenomeno nazionale, nel periodo cruciale della costruzione del Regno d’Italia. L’opera di Giannina Milli proseguì dopo il 1864 con un impegno diverso, volto alla costruzione vera e propria del tessuto sociale e civile unitario. Istituì una fondazione culturale, la Fondazione Giannina Milli, che assegnava premi in denaro a fanciulle meritevoli, tra le quali troviamo Ada Negri e, soprattutto, si dedicò alla formazione e all’istruzione in particolare femminile, dirigendo e istituendo Scuole e Istituti per conto del Ministero della Pubblica Istruzione, diretto dal ministro Scialoja.
Grande ammiratrice e protettrice della Milli, fu Clara Maffei che a Milano aveva il salotto più frequentato e famoso dell’epoca. La lapide posta sulla sua casa la ricorda infatti così: “In questa casa dimorò trentasei anni e morì il 13 luglio 1886 la contessa Clara Maffei, il cui salotto, abituale ritrovo di insigni personalità dell’arte, della letteratura e della musica fu pure, tra il 1850 e il 1859 cenacolo di ardenti patrioti tenaci assertori dell’indipendenza e dell’Unità d’Italia”. Il salotto della Maffei nasce intorno al 1834 e all’inizio fu soprattutto un ritrovo letterario ed artistico, molto raffinato ed elegante frequentato da Manzoni, Verdi, Rossini, Balzac. Nel 1846 però, assunse un carattere spiccatamente politico e liberale, diventando un focolaio di agitazioni a favore dell’indipendenza d’Italia, accogliendo ministri, diplomatici ed alti ufficiali che progettavano di influenzare il corso degli eventi per liberare il Lombardo Veneto dagli austriaci.
Ma l’anno cruciale che diede una svolta operativa alla vita del salotto milanese fu il 1848, con la partecipazione ai moti insurrezionali. Molti nobili patrioti, frequentatori della casa di Clara Maffei, salirono sulle barricate al fianco di popolani e intellettuali ed anche Clara fece la sua parte, sostenendo moralmente ed economicamente gli insorti, aiutando ed assistendo i combattenti. Ospita in casa sua, con grande rischio, la principessa Cristina di Belgioioso, che era giunta a Milano con un gruppo di volontari napoletani.
Clara si compromise così apertamente da dover fuggire a Locarno quando, repressa la rivolta, la reazione austriaca colpì duramente istituendo processi sommari. A poco a poco, con il consolidarsi di una concreta politica liberale e riformista nel vicino Piemonte, Clara Maffei abbandonò le posizioni mazziniane per sostenere la linea di Camillo Cavour. Sostenne fortemente, e finanziò, l’azione dei volontari lombardi di fronte alla prospettiva di una seconda guerra di indipendenza che, come in effetti avvenne, avrebbe potuto vedere il Piemonte alleato con la Francia. Dopo le prime vittorie, l’8 giugno del 1859, Vittorio Emanuele II e Napoleone III entrarono trionfalmente a Milano. Napoleone fece dono alla Maffei di un suo ritratto autografato che fu posto nella parete centrale del salotto. Dopo il 1860, con la liberazione di Milano e della Lombardia, il salotto della Maffei cessò di essere un “covo di congiurati per la libertà” e tornò alla sua connotazione prevalentemente culturale ed artistica, pur mantenendo il patriottismo e il liberalismo come ideali ispiratori e continuando quindi a rappresentare un imprescindibile punto di riferimento per intellettuali e politici.
Un racconto pressoché completo della storia unitaria, narrata dal punto di vista dei protagonisti, è quello che ci è stato lasciato da Costanza D’Azeglio, moglie di Roberto e cognata di Massimo D’Azeglio, nella forma di una raccolta di lettere inviate al figlio Emanuele dal 1835 al 1861, dal titolo Il giornale dei giorni memorabili. Torinese, nobile di nascita, abituata a muoversi fra la gente che faceva la storia, fu una fervente patriota e una attenta osservatrice dei fatti, capace anche di raccontarli in una forma inconsapevolmente giornalistica. Nelle sue lettere al figlio, che erano nell’intenzione originaria lettere riservate, destinate a restare private, riporta i passaggi cruciali della lotta per l’indipendenza, i nomi di coloro che ne furono protagonisti, i dubbi e le incertezze, la gioia dei piemontesi alla notizia della concessione dello Statuto carloalbertino e, contemporaneamente, il timore per le ripercussioni sugli stati vicini. Riusciamo, attraverso la sua narrazione, a cogliere pienamente la prospettiva piemontese nel percorso verso l’unità nazionale, con l’alternarsi di speranze e delusioni, delle paure e delle illusioni che l’hanno accompagnato, dal ruolo di guida contro il nemico austriaco nella vicina Lombardia a quello di protagonista nel processo di unificazione. Costanza, la marchesa D’Azeglio, rivela anche i sui timori ed il suo smarrimento nell’avventurarsi verso la costruzione di un mondo totalmente nuovo, che avrebbe sovvertito l’ordine preesistente, nel quale lei e coloro che appartenevano alla sua classe sociale, avevano un posto ed un ruolo precisi. Cavour, chiamato nelle lettere confidenzialmente Camillo, è percepito come un geniale stratega, audace e lucido al tempo stesso, ma proprio la sua audacia a tratti la spaventa. “Camillo è pazzo?” si chiede Costanza. Lei scorge nella guerra progettata da Cavour qualcosa di più grave della sconfitta e del naufragio del sogno risorgimentale, scorge la fine del Piemonte e della sua società civile ed ordinata, che aveva già realizzato delle conquiste e segnato un progresso civile. In ogni momento fedele “al suo re”, Carlo Alberto prima e Vittorio Emanuele II poi. Le lettere iniziano nel 1835 quando nel Regno di Sardegna imperversa il colera e continuano toccando fatti salienti come l’amnistia concessa da Carlo Alberto ai cosiddetti “ventunisti”, ovvero coloro che avevano partecipato ai moti insurrezionali del 1821 e che, tra l’altro avevano indotto proprio la sua famiglia ad allontanarsi da Torino. Ma l’evento più importante, che trova ampio risalto nelle lettere di Costanza è, ovviamente, la firma dello Statuto da parte del re, nel marzo del 1848. Una “concessione dall’alto” che giunge dopo vari ripensamenti, che valgono a Carlo Alberto l’appellativo di Re Tentenna, influenzata dagli eventi rivoluzionari che stavano agitando l’intera penisola, ma che sarà l’unica Carta Costituzionale a resistere dopo il reflusso reazionario che seguirà ai moti del ’48. La portata di questo evento è enorme e Costanza lo percepisce pienamente, poiché lo Statuto Albertino, con gli 84 articoli che lo costituiscono, pone fine al potere assoluto nel Regno di Sardegna e verrà poi esteso al Regno d’Italia, restando in vigore se pur formalmente nel periodo fascista fino alla Costituzione repubblicana. Ma le lettere di Costanza riportano in modo efficace anche episodi altamente drammatici, come le violenze della polizia austriaca e gli scontri durante le Cinque giornate di Milano, sottolineando proprio l’intervento delle donne che non esitano a lanciarsi nel combattimento: “Le donne – racconta – gettavano dalle finestre olio bollente e vetriolo sui nemici, sparavano con le pistole e, in mancanza di fucili, usavano i recipienti di argilla come bombe”. Dalle Cinque giornate di Milano alla prima guerra di indipendenza, per la quale Costanza nutre grandi speranze, legate soprattutto al coinvolgimento non solo del Lombardo-Veneto, ma anche di Modena, Piacenza e della stessa Sicilia, fino alla amara disillusione con la sconfitta di Novara e la “ritirata del Piemonte, che si era consacrato alla guerra con tutte le sue forze”, come scrive in una lettera, seguita dall’abdicazione di Carlo Alberto, che morirà di lì a poco, in favore del figlio Vittorio Emanuele II. Costanza mostra grande acume nel giudizio politico su alcuni tra gli uomini più importanti del tempo come Gioberti, che per lei “vive nelle nuvole, si è fatto un mondo immaginario a sua misura e ignora la realtà”, concludendo perentoriamente “ Non è un uomo di Stato”. O lo stesso Carlo Alberto, che assolve dalle sue responsabilità ed errori riconoscendo che “la nostra causa non sarebbe ora perduta se tutti vi si fossero votati come lui”. Mazzini invece viene giudicato negativamente, insieme ai suoi “fanatici”, anche per il chiaro attaccamento alla monarchia da parte di Costanza, che dice di non temere “le loro fanfaronate”, ma ammonisce a non sottovalutarli in quanto “il partito di Mazzini è numeroso e radicato”. Il nuovo re, Vittorio Emanuele II, che ammira e che descrive dal “volto ardito e deciso, che non si lascia mettere in soggezione dal maresciallo Radetzky”, diede nel 1849 pieno appoggio ai liberali, chiamando alla guida del governo proprio Massimo D’Azeglio, il cognato di Costanza, e lei stessa partecipò all’apertura della Legislatura. L’anno seguente entra a far parte del governo Camillo Cavour, e sarà proprio lui a succedere a Massimo D’Azeglio nella carica di Presidente del Consiglio. Da questo momento, con mente lucida ed equilibrata, sarà Cavour a guidare la politica piemontese e a proiettare il piccolo stato sulla scena internazionale, fino a stringere con Napoleone III l’alleanza che vedrà l’ingresso della Francia nella causa italiana. L’ultimatum del 23 aprile 1859 dell’Austria, ovviamente rifiutato da Cavour, segna l’inizio della seconda guerra d’indipendenza e Costanza vive con eccitazione e timore questo momento: “Siamo alla mobilitazione. Sono state richiamate molte classi. Dio voglia che Camillo non sia così imprudente da spingerci ad una fatalità. (…) In questa incertezza io mi sentivo scuotere dal nervosismo, la pelle mi si accapponava dai brividi, ma la paura non era per l’Italia. Ci vedevamo distrutto il Piemonte. Esisteremo ancora o non esisteremo più? Ecco il problema. Ed è tutto nelle mani di Camillo. Ma per parlare più chiaramente, Camillo ne uscirà o è un pazzo?”. Delle seconda guerra d’indipendenza racconta le gesta eroiche così come la dura realtà di battaglie sanguinose, come Solferino, San Martino, dove “quei disgraziati dei nostri soldati – dice – sono rimasti a combattere dalle quattro del mattino alle nove di sera senza bere né toccare cibo: sempre impegnati, spesso in azioni condotte di corsa e spesso costretti ad arrampicarsi lungo i fianchi della collina”. Ma i tono più toccanti e drammatici li troviamo nella descrizione degli ospedali sorti in tutto il Piemonte per accogliere i feriti. dei quali dice: “L’assistenza ai malati e ai feriti è tutta ricaduta sulle mie spalle”. Analizzando la diversa organizzazione degli ospedali francesi e di quelli piemontesi Costanza dice: “I nostri ospedali, diretti con ordine ed economia dalle suore, hanno tutti le loro risorse a servizio e a disposizione dei malati, ma che inferno sono gli ospedali amministrati dai francesi: i sani rubano, e gli ammalati, trattati come cani dagli infermieri, mancano di tutto. (…) Non avendo scodelle sono ridotti a mangiare nei vasi da notte, che è l’unico vasellame di cui dispongono. (…) Il cibo: la carne, le uova fritte, venivano gettate sui letti”. Al termine del conflitto la marchesa ricevette una medaglia d’oro per l’assistenza fornita ai feriti, tuttavia questa gioia fu notevolmente offuscata dalla delusione dovuta all’armistizio firmato ds Napoleone III a Villafranca con gli austriaci. Una delusione che aveva i connotati del tradimento. Cavour si dimise e Vittorio Emanuele II dovette accettare l’armistizio. Il 14 giugno 1860, nei giorni successivi all’impresa dei mille, Costanza esprime il suo parere su Garibaldi che dice essere, “come Mazzini, dominato da una sola idea: l’unificazione del Paese, e vi tende come una freccia che soltanto il bersaglio potrà fermare. E la freccia è ormai scoccata. Ma c’è una differenza con Mazzini; Garibaldi paga di persona, Mazzini si agita ma si tiene al riparo”. Gli eventi poi, si sa, si susseguirono velocemente: la sconfitta dei borbonici, l’incontro a Teano e la simbolica consegna dell’Italia meridionale al Re e l’implicita sottomissione dell’impresa garibaldina alla monarchia sabauda, l’annessione del Regno delle due Sicilie – con un plebiscito – all’Italia di Vittorio Emanuele III e la capitolazione di Gaeta, ultima roccaforte del potere borbonico. “Siamo trascinati da un fulmine – scrive Costanza l’11 settembre 1860 – ti confesso che resto senza fiato. Sembra un sogno la realtà che ci trascina. Siamo come travolti”. Nell’ultima lettera inviata al figlio, l’emozione per la drammatica ed improvvisa morte di Cavour, il 6 giugno 1861 all’età di 51 anni, pochi mesi dopo l’apertura a Torino del primo parlamento italiano, avvenuta il 18 febbraio: “Tutte le classi, le persone di tutte le età ne sono rimaste colpite. La gente nelle strade appariva costernata. Piangevano dappertutto. Questo non è un modo di dire. Le lacrime erano vere. Piangevano al Senato, alla Camera, ai Ministeri”. Ma anche la vita di Costanza stava giungendo al termine. Sia lei che il marito scomparvero l’anno successivo tra lo sconforto dei tanti che avevano aiutato.

UNA PROTAGONISTA DISCUSSA: LA CONTESSA DI CASTIGLIONE
Considerata una delle donne più belle dell’800, Virginia Oldoini, contessa di Castiglione ebbe una parte rilevante nella rete di trame che Camillo Cavour seppe organizzare per la causa italiana.
Fiorentina di nascita, orfana prestissimo di madre e trascurata dal padre ambasciatore, si sposa ancora molto giovane con un cugino di Cavour, Nicchia, questo era il suo soprannome, divenne presto una celebrità proprio grazie alla sua straordinaria bellezza. Il matrimonio le permise di trasferirsi a Torino, di accedere alla corte di Vittorio Emanuele III e di essere presente e ricercatissima in tutte le feste e i ricevimenti più importanti. Il rapporto con il marito inevitabilmente si incrina, e neanche la nascita del figlio Giorgio, restituisce alla coppia la serenità. Virginia è lanciatissima sulla scena mondiale, e la sua ambizione la spinge sempre oltre. Cavour comprende che la bella contessa avrebbe potuto essere un’alleata presso la corte a Parigi, dove lei era giunta con il marito nel Natale del 1855 e dove lui stesso si reca nel febbraio dell’anno seguente. Proprio in quello stesso mese Cavour avrebbe messo a punto il suo piano famoso, secondo il quale la contessa avrebbe dovuto sedurre Napoleone III per ottenere informazioni riservate ed anche per renderlo maggiormente disponibile verso la causa italiana. Esiste una lettera nella quale Cavour dice al ministro Cibrario di aver “arruolato nelle fila della diplomazia la bellissima contessa di Castiglione, invitandola a sedurre l’Imperatore”. In effetti la promessa di assegnare un posto nella delegazione di san Pietroburgo al padre di Virginia fu mantenuta, e così questo padre che viene raffigurato freddo, mediocre, disinteressato da sempre alla sorte della figlia, ottiene per sé dei benefici nella carriera diplomatica. Napoleone III, se pur sposato con una donna di grande bellezza, Eugenia, la “bionda andalusa” era molto sensibile al fascino femminile e rimase colpito dall’avvenenza della contessa al suo primo apparire a corte.
La storia che ebbero, iniziata nel castello di Compiègne dove Napoleone concludeva le vacanze estive, durò pochi mesi ma fu intensa, e servì senza dubbio ad accrescere la popolarità di Virginia, ma non si può stabilire quanto “Minette”, come la chiamava l’Imperatore, sia stata determinante nel favorire i piani di Cavour. Magari riuscì a rinfocolare le antiche simpatie di Napoleone III per l’Italia, e forse gli strappò qualche modesta informazione. Di certo lui era molto astuto e guardingo e non si fidò mai del tutto della contessa. La relazione fra i due durò solo una stagione, il che rende improbabile un condizionamento vero e proprio delle scelte politiche, anche se lei, anni dopo , giunse a dire di “aver fatto l’Italia” e a chiedere di essere sepolta con la camicia da notte che aveva indossato nel suo primo incontro. Come era prevedibile, il resto della vita della donna più ammirata del suo tempo, fu segnato da un inarrestabile declino. Separata dal marito, non ebbe mai un buon rapporto con il figlio che morì giovanissimo per un attacco di vaiolo. Lo storico Andrea Maria Visalberghi scrisse di lei: “per l’amor di Dio e della verità, non trasformiamo Nicchia in uno dei protagonisti del Risorgimento e non facciamo della camicia di finissimo lino indossata nella notte di Compiègne, e che ella avrebbe voluto, e non ottenne, avere addosso anche nella bara, una bandiera nazionale”.

Donatella Ferretti

lunedì 17 gennaio 2011

CONVEGNO: PROFESSIONISTA IN PATRIA, SPECIALISTA IN MISSIONE.

L’impegno delle donne soldato nelle zone di guerra raccontato dalle stesse protagoniste. E’ l’iniziativa presentata a Palazzo dei Capitani dall’associazione Agirelibere in collaborazione con lo Stato Maggiore dell’Esercito e il patrocinio dell’assessore alle politiche sociali Donatella Ferretti del Comune di Ascoli. L’incontro sul tema “Professionista in Patria, specialista in missione” ha visto le testimonianze del Cap. Stefania Bonaldi, del Magg. Daniela Sburlati e del Ten. Elena Mazzucco e ha focalizzato l’attenzione sulla cosiddetta “riserva selezionata” che si avvale di professionalità civili prestate all’occorrenza alle Forze Armate. Così la Sburlati, medico chirurgo e specialista in Odontostomatologia si è ritrovata in Kosovo a Pec. «Importante esperienza umana e professionale» dice. «Lo rifarei e andrei anche in Afghanistan». Paura? «No, ho più paura di morire in tangenziale a Torino». Così la Mazzucco, giornalista nella vita civile, che si è ritrovata ad Herat a Camp Arena. «Tra bombardamenti e allarmi all’interno del nostro campo ho visto la guerra con i miei occhi. Ho capito che il ruolo delle donne soldato può essere fondamentale soprattutto nel facilitare i rapporti con le donne afgane». «Già proprio così - aggiunge la Bonaldi del Media Combat Team, 4 mesi a Pristina - la presenza femminile nell’esercito è decisiva nel contatto con la popolazione». Presenti oltre al Col. Luigi Cinaglia capo di Stato Maggiore della Regione Militare Nord e al Col. Ciro Annicchiarico comandante del Reggimento Piceno, il sindaco Castelli, l’assessore Ferretti ed una folta rappresentanza femminile del battagione piceno, accompagnata dal tenente Paola Trolli.